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Salta l’intesa europea sul Made in Italy
La Stampa, Marco Zatterin, corrispondente da bruxelles
Sette anni di lobby intensa, convegni, missioni, campagne pubblicitarie all’estero, investimenti. Tutto per difendere la qualità italiana da una concorrenza planetaria che spesso è sleale. E tutto inutile, adesso che la Commissione Ue ha messo la pietra tombale sulla proposta di regolamento n. 611 del 2005, quella cosiddetta del «Made in», il provvedimento che doveva imporre l’etichettatura di origine sui prodotti provenienti dai paesi terzi.
Le nostre imprese, appoggiate da governi di ogni colore, ne avevano fatto una bandiera per differenziarsi da asiatici e americani. «Obsoleto», hanno decretato invece gli uomini del presidente Barroso. Così d’ora poi, salvo miracoli, non se ne parlerà più.
La retromarcia non è stata annunciata formalmente. Martedì, a Strasburgo, il numero uno dell’esecutivo comunitario ha presentato come da tradizione il suo Programma per il 2013. Nel secondo allegato, venti pagine di tabelle, sono elencate le proposte che Bruxelles intende mettere sul tavolo e quelle che ritiene di non dover più portare avanti. Alla penultima nota dell’ultima pagina, appare il regolamento 611. Cassato. Uno dei quattordici testi che la Commissione vuole ritirare. «Oltre alla mancanza di accordo in Consiglio - si spiega -, recenti sviluppi nell’interpretazione legale delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio hanno reso la proposta non attuale». Amen!
Ancora pochi giorni fa, la Confindustria era tornata a suonare la carica. Si ha notizia di una lettera del presidente Giorgio Squinzi indirizzata a Palazzo Berlaymont per sollecitare un’accelerazione dell’iter. In effetti, non è successo nulla da che l’Europarlamento ha approvato il testo nell’ottobre 2010 ritenendo il marchio di origine una condizione necessaria «per dare maggiore tutela ai consumatori e consentire alle imprese di affrontare ad armi pari i concorrenti». Un buon segnale. C’era anche l’appoggio di Francia, Polonia e Spagna. Eppure per i governi tedeschi, scandinavi, britannici e olandesi, la norma era un inaccettabile pugno nell’occhio del libero scambio. Inutili i tentativi di pressione di quello che, a Bruxelles, erano noto come «Il Cartello del “Made In”». Si ricorda una missione a Strasburgo di Emma Bonino, allora ministro degli Affari Ue (settembre 2007), occasione in cui furono distribuiti degli ombrelli blu pro etichettatura, metafora della necessità di pararsi la testa (erano cinesi, incidentalmente).
E anche ripetuti viaggi della coppia Urso-Ronchi, rispettivamente titolare del Commercio Estero e delle politiche Ue nel governo Berlusconi, impegnati a definire «inaccettabili i ritardi» e premere sui colleghi del Consiglio. Il sistema di Camere e imprese ha varato iniziative parallele, col sostegno dell’Ice. Due budget grosso modo da 500 mila euro l’uno. «Al netto delle spese per le persone, i viaggi e tutto il resto», precisa una fonte che conosce il dossier. Un milione e passa, dunque. La notizia era nell’aria, conferma l’eurodeputato Gianluca Susta, che la definisce «assurda e affrettata». Passo «ingiustificabile senza nemmeno un passaggio preliminare col Parlamento», aggiunge Niccolò Rinaldi (Idv). In primavera i nostri eurodeputati avevano parlato di «provvedimento insabbiato».
Il premier Mario Monti è stato informato giovedì poco prima del vertice Ue. Si racconta che il professore abbia incaricato i suoi collaboratori di suggerire agli industriali di rinunciare all’ambito osso. Nei taccuini è rimasta anche una battuta tagliente. «Citando Squinzi - avrebbe scherzato il premier - potremmo dire che si trattava di una boiata». Era anche un modo per sdrammatizzare una lunga marcia tristemente senza esito.
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